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Calcolo Integrali

giovedì 17 luglio 2008

Auguri Don Gallo




da Repubblica di oggi

"Il vero peccato è il consumismo che ci ha cambiati tutti: ne parlavamo spesso con Fabrizio De Andrè"
di Wanda Valli

La foto di don Bosco, il sigaro spento, il fazzoletto rosso al collo. La fede e la speranza, la testardaggine e il sorriso. Don Andrea Gallo, è tutto qui, nei simboli più cari, nei vezzi, nel carattere, lui prete di strada per scelta, che oggi compie 80 anni. Alla vigilia, li racconta nella comunità di San Benedetto, in una piccola stanza con i mobili arraffati, regalati, raccattati, con il ventilatore che non funziona e il caldo che entra dalla finestra aperta, vicino a don Bosco incorniciato e appeso al muro. Andrea Gallo è seduto alla scrivania, il pensiero va al suo mese del destino: «mi è successo tutto a luglio, la mia mamma ricordava che ero nato alle 13 di un 1928 rimasto nella storia perché caldissimo. A luglio c´è la festa della Madonna del Carmine, la svolta della mia vita, perché sono arrivato qui nel 1964, accolto da Siri, a luglio del 2001, c´è stato il G8, adesso la sentenza».

Già, la sentenza, ma prima parliamo di festa, di questi 80, magnifici, anni. Un regalo che vorrebbe? Lui strapazza il sigaro, disegna su un foglio stelle, righe, cerchi, sul regalo non ha dubbi: «Ecco, vorrei che si smettessero i litigi per dare la moschea ai fratelli islamici. Genova l´ha sempre avuta, sin da quando era la Repubblica, perché adesso no? Sono colpito come uomo prima di tutto, perché come Einstein che, a chi gli chiedeva la razza, rispose umana, io credo alla fratellanza». Ancora un desiderio: «a spegnere la candelina avrei voluto il mio vescovo, il cardinale Bagnasco, amo la chiesa e la vorrei in grado di cambiare, oltre che gloriosa e penitente».

Don Gallo, mai pentito di essere diventato prete? Lui quasi si stupisce: «io nella chiesa mi sento a casa, e allora mai, mai, mai pentito», magari avrà qualcosa di cui pentirsi? «No, tornassi indietro vorrei essere ancora più coerente con il Vangelo, per star vicino alla gente. Non ho mai avuto nemmeno ammonizioni canoniche, il nostro cartellino giallo». Buffa storia, la sua, don Gallo, prete di strada e di cardinali? «Ma no, è che anche Siri si divertiva con me. Mi ricordo il ´68, un giorno mi chiama e mi dice, senti un po´ quando andate in corteo nominate i vostri santi, ce n´è uno che non conosco. E io, dica Eminenza. Siri "Ho Chi Min" chi è?", capito? Siri era così».

Dal ´68 al luglio del 2001, con il G8, i migranti, e poi la sentenza su Bolzaneto, tre giorni fa. Che effetto le ha fatto? «Nessuno, una grande ammirazione per il lavoro dei pubblici ministeri, eccezionale, ma io facevo parte del Comitato dei garanti del Genoa Social Forum, tante volte ho sentito dire in aula "mi avvalgo della facoltà di non rispondere" e quindi nessuna sorpresa. Perciò avevo chiesto, più volte, la Commissione d´inchiesta, il governo di Berlusconi di allora la rifiutò, era nel programma del governo Prodi e non si è fatto niente lo stesso. Così la ferita rimane, ora si sa che è successo qualcosa di illegale, ma chi era ministro lo è rimasto e allora i giovani pensano "può succedere di nuovo". Volete far esplodere nuove frange di violenza?».

Sul G8, don Gallo non riesci a fermarlo, lui che si è fatto i cortei nel 2001, che ricorda i lacrimogeni «ci sono volute due ore per rivederci bene», lui che incalza: «qual era il grido del G8 dopo Porto Alegre? I giovani chiedevano, è possibile costruire un nuovo mondo? ecco perché resta la ferita. Qui, in questa stanza, è venuto Monicelli, nel luglio del 2001, è venuto Scola e tutti mi domandavano: riusciremo a togliere la paura del futuro ai nostri ragazzi». E lei come rispondeva, don Gallo? «Osare la speranza, era il motto della mia brigata partigiana». Com´è finito a far la guerra da ragazzino? «Per mio fratello Dino. Lui era tenente del genio, di stanza a Milano. Io andavo al Nautico, tutto casa, scuola, regole fasciste. L´8 settembre mio fratello sparisce, lo rivediamo qualche mese dopo, a casa. Annuncia «sono con i partigiani». Lui era un comandante io, a 17 anni, gli sono andato dietro, il mio nome di battaglia era "Nan" facevo un po´ di tutto».

Poi finisce la guerra, «ricordo la gioia delle donne che potevano votare per la prima volta, la gioia di un paese. E vedere a 80 anni che la democrazia è subordinata alla sicurezza: no, no, non ci siamo». Torniamo agli 80 anni, alla festa di Genova per lei. A chi penserà? «Vorrei dedicarla tutti i miei collaboratori, a chi fa volontariato, vorrei ricordare due persone speciali, Bianca Costa e padre Antonio Balletto». Che cosa teme per la società, per l´Italia? «L´indifferenza, e sono gramsciano in questo. Gramsci che dice "io vivo perché sono partigiano". E allora, siamo in tempesta, ma abbiamo la bussola, eccome, i primi dodici articoli della Costituzione, e per noi cristiani, il Vangelo. L´indifferenza nasce negli anni ´80 con il consumismo che ci ha fiaccato».

Oggi un pensiero andrà alla madre, scomparsa a «99 anni e mezzo». Andrea Gallo la ricorda con il sorriso.« Una mattina di primavera ci disse, ho deciso di partire. Dove vai? In paradiso. Poco prima di partire per quel viaggio, aveva sete. Le chiesi mamma, acqua o moscato? E lei, lucidissima, moscato. Le bagnarono le labbra, mamma salutò ognuno di noi. Si addormentò. Lo raccontavo a don Balletto, gli ultimi giorni, sono riuscito a farlo ridere». Con lui festeggerà, da casa, l´ultima testimone della sua nascita: «mia zia Adelina, sorella di mamma. Aveva 17 anni quando sono nato io», e il fratello Dino, i due nipoti. E chissà che dall´Australia non arrivi, via cielo, la benedizione del cardinal Bagnasco. Al suo prete di lotta e di strada.

''Siamo un popolo di rivoluzionari, ma vogliamo fare le barricate con i mobili degli altri''. 
Ennio Flaiano

venerdì 4 luglio 2008

Pantera - A New Level

Un po' di sana violenza...

mercoledì 2 luglio 2008

venerdì 20 giugno 2008

KUDU

Per chi fosse interessato i KUDU sono una band newyorkese che suona al NUBLU.

Ascoltate questo video.



"La mente è come il paracadute: funziona solamente quando è aperta."
Frank Zappa

martedì 17 giugno 2008

Nick Drake

Avevo intenzione di scrivere i soliti rodimenti di culo legati alle schifezze che vedo ma poi mi sono ricordato di una canzoni di Nick Drake ascoltata in un film l'altro ieri su sky.

Ascoltate il video in silenzio.





Nick Drake.
Rangoon (Birmania) 19 GIUGNO 1948 Tanworth in Arden (Inghilterra) 25 NOVEMBRE 1974

martedì 10 giugno 2008

AL VIA ANCHE IN ITALIA LA CAMPAGNA INTERNAZIONALE PER LA GIUSTIZIA IN DARFUR


ITALIANS FOR DARFUR lancia un appello per la consegna dei criminali di guerra al Tribunale Penale Internazionale. Testimonials d’eccezione i NEGRAMARO.



Roma, 5/6/08 – Parte oggi, anche in Italia, la campagna internazionale per la giustizia in Darfur, grazie alla collaborazione nata tra Italians for Darfur, associazione per i diritti umani in Darfur e membro della Save Darfur Coalition, e i Negramaro, una delle più importanti e note band italiane.
“Giù le mani dagli occhi – Via le mani dal Darfur” è il messaggio del video, presentato in anteprima al concerto del 31 Maggio a San Siro, attraverso il quale i NEGRAMARO rilanciano l’appello di Italians for Darfur al Governo Italiano affinchè esprima profonda preoccupazione, presso le Nazioni Unite, per la volontà del governo sudanese di non consegnare alla Corte Penale Internazionale i due principali sospettati di crimini contro l’umanità, Ahmad Harun and Ali Kushayb.
Il video vuole essere anche una denuncia del silenzio dei media sulla crisi umanitaria in corso da oltre cinque anni in Darfur, che ha provocato oltre 300.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati: i sei componenti della band salentina, che hanno gli occhi coperti da mani non proprie, sono seduti a semicerchio davanti a un televisore non sintonizzato.




Il procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, riferirà oggi 5 giugno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a New York, della situazione dei diritti umani in Darfur.
Il Tribunale Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto per i due principali sospettati di gravi crimini contro l’umanità da oltre un anno, dal 27 Aprile 2007. Ahmad Harun e Ali Kushayb, rispettivamente Ministro agli Affari Umanitari e capo della milizia janjaweed, hanno a loro carico ben 51 capi di accusa per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, incluse esecuzioni sommarie, persecuzioni, torture e stupro, ma non sono stati ancora consegnati dal governo sudanese all’ autorità internazionale.

Italians for Darfur e le associazioni della Save Darfur Coalition chiedono che le Nazioni Unite adottino una nuova risoluzione affinchè il Sudan cooperi completamente con la Corte Penale Internazionale.

*Il comunicato è stato invece ripreso dalle agenzie ANSA, ADNKRONOS, APCOM, ILVELINO.


Il rapporto del 5 Giugno del Procuratore Luis Moreno Ocampo è visionabile qui

lunedì 9 giugno 2008

CINEMA E GOMORRE





La settimana scorsa ho visto al cinema "Il Divo" di Paolo Sorrentino e prossimamente vedrò "Gomorra".
E' molto interessante la critica ai due film nel contesto del New Italian Epic proposta da Mauro Gervasini.

Seguendo da lettori il dibattito sulla Nuova epica italiana inaugurato da Wu Ming 1 e proseguito da altre voci, i cinefili non possono che provare invidia nei confronti degli appassionati di letteratura. Naturalmente le due condizioni possono coincidere, come nel caso di chi scrive, ma da attenti osservatori della “cosa” cinematografica italiana non possiamo che dolerci della mancanza di una tendenza simile in campo filmico. E la delusione si estende pensando che a parte le solite, rare eccezioni, persino la produzione nordamericana, da sempre abituata a elaborare in termini di immaginario gli archetipi dell’avventura e del mito, pare avere perso qualunque respiro epico. George Lucas, con la seconda trilogia (che poi sarebbe la prima) di Star Wars, ha dimostrato come sia possibile rincoglionirsi inseguendo chimere tecnologiche (il digitale, la computer graphic, il blue screen) e dimenticandosi della definizione di personaggi e avventure. Steven Spielberg (e ancora Lucas) con l’ultimo, sciagurato Indiana Jones, ha rincarato la dose confermando come il principio dell’immersione (postmoderna) nell’azione, sostituendo l’immedesimazione dell’avventura classica, possa generare mostri. Una prova? Guardate Casablanca di Curtiz e La maledizione del teschio di cristallo in rapida successione: il primo vi apparirà di una modernità, di un fascino e di una “autenticità” impressionanti. Il secondo, invece, paccottiglia spacciata per antica, e movimentata quanto basta per non far attecchire la polvere.

A parte la limpida, inequivocabile, straordinaria eccezione di Michael Mann, il solo grande autore mainstream, Hollywood è morta. Come volete che stia Cinecittà, allora? Male. L’unico fenomeno di cassetta dell’ultimo decennio, escludendo i “panettoni”, è stato quello dei filmini giovanilistici tipo Notte prima degli esami e Tre metri sopra il cielo. La storia insegna a non demonizzare simili fenomeni, ma un conto é accogliere con interesse e rispetto Poveri ma belli di Dino Risi (1956), emblema di una gioventù proletaria che ambiva al benessere piccolo-borghese, un altro è accodarsi al successo di modelli che riproducono sul grande schermo quelli effimeri del piccolo. Con un cortocircuito micidiale, infatti, sono gli intrecci fasulli di Amici della De Filippi a funzionare da matrice narrativa; le colonne sonore sono canzoni degli spot dei cellulari e le regie si strutturano sulla falsariga dello stile mucciniano. Un tempo una siffatta espressione di riporto sarebbe stata definita trash, oggi si abbozza perché i Moccia, i Vaporidis, le Capotondi, i Brizzi paiono in sintonia con il paese reale, per lo meno quello under 20. E non è detto che non sia così...
Di epica, comunque, manco a parlarne. Mancano le storie, quelle importanti e capaci di coinvolgere identità collettive e valori condivisi. Negli anni 60 e 70 c’erano sì i film sciatti e coatti, i Franchi e Ingrassia girati con la mano sinistra o Alvaro Vitali e Nadia Cassini, ma anche Il sorpasso e In nome del popolo italiano, Romanzo popolare e Francesco Rosi, Damiano Damiani, Petri e i generi propriamente avventurosi: western, horror, poliziesco. Per carità, nessuna nostalgia. Il 90% di quei modelli produttivi sarebbero irriproducibili adesso. Ma certo manca da parte della nostra cinematografia la capacità di elaborare racconti di ampio respiro e non solo scenette ombelicali costruite ad arte per soddisfare sponsor e responsabili del product placement.

Invidia, dunque, pensando al fervore del dibattito che circonda il mondo delle lettere.
Poi, inaspettatamente, escono in sala due film come Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino e un poco ci si riconcilia con il nostro cinema. Beninteso: nessuna “primavera” o risorgimento, sono formule buone per quotidiani e politici, alle quali non credono neanche gli addetti ai lavori. Solo una coincidenza fortuita, e l’occhio lungo dei selezionatori di un festival, quello di Cannes (dove i due titoli hanno rispettivamente vinto l’argento e il bronzo), che da tempo aspettava al varco un minimo segnale di ripresa della nostra produzione, puntualmente arrivato in base al calcolo delle probabilità. Anche, va detto, film profondamente diversi, nonostante condividano una medesima idea (politica e morale) di cinema. Gomorra si ispira liberamente all’omonimo testo di Roberto Saviano ma è un’altra cosa rispetto all’impianto del romanzo-inchiesta. Garrone ha eliminato il soggetto del libro (l’io narrante) e ha scelto come punto di vista quello dell’oggetto, ovvero il contesto, Gomorra, intesa come non-luogo dove convivono uomini e donne in un ambiente indistinto e senza regole che non siano quelle del denaro e della sopraffazione. Già questo spostamento dello sguardo ha un che di rivoluzionario, perché parte dal basso, dalle figure minori. Il sarto consapevole di lavorare per la camorra, lo scugnizzo pronto a essere militarizzato dal sistema, i due giovani ribelli che sfidano l’ingranaggio malavitoso, il modesto dispensatore di prebende, il collaboratore dell’affastellatore di rifiuti tossici (unico a ribellarsi). Ognuno contraddistinto da un diverso spazio fisico (il fortino delle Vele di Scampia per il piccolo Totò e don Ciro, spiagge mare boschi per i due “anarchici”, cave e campagne per i riciclatori, interni operosi per il sarto) e da un identico rumore di fondo. Piombo, neomelodici, fruscio dei soldi, motori di macchine o scooter. Sono stati i Massive Attack, autori del brano che segue i titoli di coda, a consigliare a Garrone di lasciare il film senza musica. Inutile e pleonastica. Basta il suono naturale delle cose, del degrado. Bastano le lingue (il casalese quasi pugliese, il napoletano, l’inglese dei nigeriani, il mandarino dei cinesi) a rendere Gomorra una fetta di mondo e non una ferita italiana.

Una collega che da anni si occupa di giudiziaria, però, ci pone un problema. Il film racconta solo il primo anello della catena, non fa nomi, non mostra collusioni, non denuncia. Forse, per questo, “non fa politica”. Ma Gomorra non è un’inchiesta. Non è un reportage. E' un quadro impressionista. Realistico ma non realista. Anzi astratto, a tratti fiabesco, spessissimo sospeso tra la concretezza greve della terra e la materia del sogno, livida e stupefacente. Se si vuole sapere qualcosa dell’anello principale, quello che della Gomorra beneficia affinché tutto cambi per restare identico, be’, allora c’è Il Divo di Paolo Sorrentino.

Non la biografia di Giulio Andreotti e neppure la cronaca dei suoi ultimi anni al potere, sebbene il film sia ambientato nel periodo che va dalla nascita del suo VII governo al processo per associazione mafiosa. Bensì la rappresentazione di quel tempo devastato e vile, avido, grottesco, con il simbolo della “complessità” oscura dell’Italia dal Dopoguerra a oggi ridotto non a maschera tragica ma a caricatura di se stesso e di un sistema. La storia insegna che nel declino di ogni potente c’è sempre qualcosa di ridicolo, ma la parabola discendente di Andreotti - dal bacio di Riina alla punzonatura dei picciotti alle battute stantie - è di per sé cattiva televisione, e non è un caso che sulla mensola del salotto del Divo siano in bella mostra i telegatti. L’operazione di Sorrentino è rischiosa, perché il personaggio, nella stilizzazione mimetica di Toni Servillo (più vera del vero: Andreotti sarebbe in realtà un uomo alto e nessuno se ne è mai accorto...) può risultare accattivante. Da qui il disprezzo della critica di sinistra (“il manifesto” ma anche Goffredo Fofi). Eppure, nell’economia del film, Andreotti è un falso problema. Sorrentino tenta anzi di trasformare un personaggio fortemente caratterizzato in un sorta di icona pop attraverso un riferimento classico (Todo modo di Petri) filtrato attraverso una sensibilità moderna (gli uomini della corrente presentati come le Iene di Tarantino, i piani sequenza scorsesiani, l’iperrealismo delle descrizioni). Così facendo, il Divo Giulio non é più l’individuo con la sua storia e i suoi misteri, ma il Potere in quanto tale, consapevole che il proprio esercizio possa avvenire a determinate condizioni. Per esempio accettando che per un sistema politico emanazione di un regime economico capitalista, il crimine non sia una perversione ma una componente intrinseca. Esattamente il senso di Gomorra di Roberto Saviano, tanto per chiudere il cerchio. A riprova dello spessore non contingente di Il Divo, la dichiarazione di Sean Penn, il quale, da presidente della giuria di Cannes, ha affermato di non sapere nulla della vicenda che racconta ma di avere avuto la percezione di riconoscere tutto, e che da loro, negli Stati Uniti, un film così lo si sarebbe potuto fare su Kissinger.
Naturalmente, la similitudine tra Andreotti e Kissinger è data dalla rappresentazione, non dalla storia personale.

Resta un punto da chiarire. In quali termini Gomorra e Il Divo sarebbero epici? Assumendo le caratteristiche principali del New Italian Epic individuate da Wu Ming 1 nel suo saggio, Gomorra soddisfa con molta evidenza il punto 1 ("nonostante Scarface di De Palma e Il Padrino, ecco un romanzo sociale e criminale disperato"), il punto 2 (lo sguardo, come detto, è obliquo e fluido per definizione), il punto 3 (la struttura a intreccio dice della complessità narrativa dell’opera), il punto 4 (ai non-luoghi di Garrone fa da sfondo un non-tempo, e l’incipit del film è, visivamente, pura fantascienza). Si può avere qualche dubbio solo sul punto 5 perché lo stile del regista è sovversivo senza essere dissimulato, ma non è escluso che il film si possa vedere senza percepire il contrappunto della macchina da presa. Il Divo soddisfa il punto 3 e soprattutto il 4, perché tutto - dai toni acidi alla colonna sonora anacronistica, alla mummificazione dei simboli istituzionali – getta la vicenda in una dimensione ucronica. Sul punto 5 vale la medesima osservazione fatta su Gomorra. I punti 1 e 2 sono i più controversi perché il film ha un rapporto ambiguo con il postmoderno e uno sguardo non definito. Chi racconta il declino di Giulio? Un occhio semplicemente impersonale e virtuosistico (la non-entità di cui parla Wu Ming 1) oppure uno pubblico che conferma come la Storia, in fondo, siamo noi? Al di là dei dubbi, e nel loro isolamento, Gomorra e Il Divo fanno sentire lo spettatore un po’ meno invidioso del lettore. E soprattutto, meno solo.

Mauro Gervasini. Giornalista cinematografico e saggista. Dal 1999 è redattore per Film Tv, Film Tv Daily, www.film.tv.it, Nick, Dvd Cult. E' stato membro del comitato di redazione del mensile di cinema e televisione Duel diretto da Gianni Canova. Collabora con i periodici Segnocinema e Nocturno Cinema, e abitualmente con l’emittente radiofonica milanese Radio Popolare. E' autore di diversi libri, tra cui Cinema poliziesco francese e Morte in diretta. Il cinema di George Romero.