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domenica 28 ottobre 2012

La lezione americana (Indro Montanelli)

Caro Edmund,
debbo muovere alcune obiezioni ai tuoi giudizi sull'ipocrisia americana. Anzitutto, non mi sono accorto che in America l'ipocrisia sia più diffusa che altrove: in Italia, per esempio. Mi sono accorto soltanto ch'essa è di diversa natura. Da noi l'ipocrisia non è un fatto sociale. Appartiene al novero delle iniziative private, e ognuno la esercita per fini personali. Gl'italiani, per esempio, non si metteranno mai d'accordo tra loro per sostenere una menzogna utile agl'interessi dello Stato o di una classe, come succede da voi, dove ogni tanto vengono varate grosse bugie collettive, cui ognuno si sforza di far finta di credere. Da noi nemmeno la dittatura fascista riuscì a imporre il conformismo. La gente applaudiva Mussolini ma non gli concedeva che il minimo necessario per poter continuare a vivere in pace. Italo Balbo, governatore della Libia, che una volta andai a trovare a Tripoli, mi disse, accennando alla sua uniforme con camicia nera: «Vedi cosa mi tocca fare per mantenere la famiglia?». Ed è press'a poco la stessa risposta che diede il vecchio Rossini al giovane Wagner, che gli chiedeva come mai aveva smesso di comporre. «Che volete? Prima, quando dovevo mantenere molti figli, ero obbligato a credere all'importanza della musica. Ma ora i miei figli son cresciuti e provvedono con i mezzi propri...».

L'ipocrisia in Italia è dettata dal senso dell'«opportuno». È spicciola, pratica e utilitaria. Quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza; si limita a un calcolo di convenienza. Una cinquantina d'anni fa, a Capri, una ricca famiglia inglese si mise in testa di convertire gli abitanti al protestantesimo. E in un certo senso ci riuscì perché tutti i neofiti avevano diritto a mangiare gratis. Ma a un certo punto scoperse che ogni domenica andavano a confessarsi da un prete cattolico che aveva dato loro il permesso. Frattanto i missionari erano caduti completamente in miseria, perché i loro seguaci di fede ne avevano poca, ma di appetito molto. E allora furono gl'«ipocriti» che mantennero loro senza punto domandargli in cambio la conversione al cattolicismo.

No, una vera e propria ipocrisia in Italia non c'è; ma non c'è per la ragione molto semplice, e poco nobile, che gl'italiani non hanno un Ideale. Essi accettano sé stessi. Non si sforzano di essere diversi e migliori di ciò che sono. In America l'ipocrisia nasce da questo tentativo. La donna americana che, prima di fare l'amore con un uomo che non è suo marito, beve, un po' per stimolare con l'alcol i suoi desideri, ma soprattutto per poter credere l'indomani di aver agito senza il controllo della coscienza, certo è un'ipocrita; ma lo è perché ha nell'animo un'idea di onestà e di pulizia da preservare contro le proprie debolezze. Ricordo la mia indignata sorpresa quando, all'indomani della mia prima esperienza erotica americana, mi vidi trattato con estrema freddezza dalla mia compagna che si rifiutò di parlarne. Ero furioso. Da buon italiano, mi sembrava offensivo e ignobile che una donna avesse dimenticato o provasse disgusto per una notte d'amore con me. E non riuscii a perdonarglielo.

Nemmeno ora questo atteggiamento, si capisce, mi piace; ma credo di comprenderne le ragioni. E la mia mente le accetta, anche se il mio temperamento le rifiuta.

Voi siete ipocriti anche in politica: quando fate dell'anticolonialismo, per esempio, voi che siete i figli e gli eredi della più spietata colonizzazione nella storia del mondo. Il linguaggio che tenete all'Onu starebbe benissimo nella bocca dei pellirosse; ma in quella di coloro che sterminarono i pellirosse, permettimi di dirti che stona un po'. Voi combattete nell'Africa del Nord i francesi schierandovi in favore degl'indigeni contro i quali essi hanno fatto molto meno di quello che voi faceste contro gl'indigeni vostri. Ora, è vero, voi trattate i pellirosse molto più lealmente e umanamente di quanto i francesi trattino gli arabi. Ma è anche più facile, dopo averli ridotti a una esigua minoranza che, anche completamente parificata ai bianchi nella legge e nei diritti, non può più far loro nessuna concorrenza. Voi impedite agli europei di fare, in Africa e in Asia, quello che i vostri fathers , europei anch'essi, fecero in America. Politicamente, forse, avete ragione. Ma questo posso dirlo io, compaesano e allievo di Machiavelli, che mi ha insegnato la distinzione fra la politica e la morale. Tu, no. Per te, americano, la politica e la morale debbono coincidere. E qualche volta devi ammettere che coincidono male. Tanto, da farmi ricordare quello che Disraeli diceva di Gladstone: «Io non gli rimprovero di barare al giuoco: ogni uomo politico lo fa. Gli rimprovero di dire ch'è stato Dio a infilargli la carta nel polsino».

Eppure, io ammiro la vostra ipocrisia e capisco ch'essa rappresenta una forza sociale d'incalcolabile valore. Roosevelt fu un grosso ipocrita quando «obbligò» i giapponesi a attaccare Pearl Harbour mentre giurava alle madri americane che mai uno dei loro figli eccetera. Però con quella ipocrisia vi mise dalla parte del Bene contro il Male e fornì ai soldati americani un'arma molto più importante della bomba atomica: il Diritto. Fu insomma, lui puritano, un buon Machiavelli cattolico, un Machiavelli molto più machiavellico del nostro povero Mussolini, che di Machiavelli parlava tanto e non ne capiva nulla.

Eppoi, che importa? Tutta questa ipocrisia «di emergenza» non impedisce di fatto alla vita americana di essere intessuta di rapporti umani fra i più semplici e schietti e cordiali del mondo. Io nella «sincera» Italia non so mai fino a che punto fidarmi di un amico e fino a che punto diffidare d'un nemico. Qui, invece, lo so benissimo. Quando uno a New York m'invita a colazione, son sicuro, accettando, di fargli un piacere. A Roma no, o per lo meno non sempre.

Per concludere, rimango del mio avviso che l'ipocrisia è il tributo obbligatorio che il Peccato paga alla Virtù. Ma bisogna che questa Virtù ci sia, perché un popolo le paghi il tributo. In America c'è. È nello sforzo che ogni americano compie, più o meno in buona fede, per essere virtuoso. Non sempre ci riesce, ma quasi sempre se lo propone. In fondo a ognuno di essi sonnecchia un Jefferson fermamente persuaso che il Bene basta volerlo per instaurarlo sulla terra.

Noi questa ingenua fede l'abbiamo persa da secoli. E appunto per questo siamo maturi per diventare la colonia di un popolo puritano, ipocrita e forte. Se voi continuate a fare gli anticolonialisti, qualche altro - puritano anch'esso, a modo suo, e certamente più ipocrita di voi - ne approfitterà.
Pensateci.

Indro Montanelli

sabato 20 ottobre 2012

Obama Vs Romney

Per caso avete sentito tremare la terra, la notte del 15 ottobre? Non era un terremoto nel sud del Maine, ma Mitt Romney che si preparava per il dibattito con Obama della sera successiva. “Non taglierò le tasse ai più ricchi”, ha detto il candida- to repubblicano. “Ogni cittadino statunitense dovrebbe avere accesso ai contraccettivi. Per troppo tempo il nostro partito si è concentrato sulle grandi aziende”. Come disse una volta Bill Clinton, ci vuole una bella faccia tosta. Ma dopo 90 minuti di discussione animata (per non dire aggressiva), pochi elettori sintonizzati sul dibat- tito in tv avrebbero confuso Romney con Obama. Nonostante la recente virata al centro del repub- blicano, i due candidati appaiono profondamen- te divisi nelle convinzioni e nella visione del futu- ro degli Stati Uniti, e nel dibattito del 16 ottobre la distanza che li separa è emersa chiaramente.
Romney punta sui mercati in politica interna e sul machismo in politica estera: vuole brandire la scimitarra contro Iran e Cina e cancellare mez- zo secolo di conquiste sociali distruggendo im- pietosamente il welfare. È apparso più grintoso e convincente quando ha promesso di agevolare le
aziende e lasciare spazio al libero mercato. “So come fare per creare posti di lavoro”, ha ripetuto più volte. Obama, al contrario, crede in un ap- proccio collettivo. All’estero costruisce con pa- zienza solide alleanze, mentre sul fronte interno promuove un patto sociale condiviso. Il presiden- te ha dato il meglio di sé quando ha risposto all’ul- tima domanda, tracciando una divisione netta tra il suo approccio aperto e l’atteggiamento sprezzante di Romney verso la parte meno bene- stante del paese. “Noi siamo diversi”, ha sottoli- neato.
Entrambi i candidati hanno cercato di con- quistare le donne di provincia, spesso attente alla contabilità familiare quanto ai diritti e alle que- stioni di principio. Il problema è che i tagli previ- sti da Romney colpiscono proprio le cose che stanno a cuore alle madri di famiglia: l’istruzio- ne, l’assistenza sanitaria e le biblioteche. Rom- ney ha interrotto il presidente per dichiarare che “lo stato non crea posti di lavoro”. Forse dovreb- be andarlo a dire alle migliaia di insegnanti, in- fermiere scolastiche e poliziotti che lavorano non per il governo, ma per tutti i cittadini.
Renée Loth, The Boston Globe, Stati Uniti.

domenica 14 ottobre 2012

Ecco perché bisognerebbe votare radicale.

Le loro denunce contro l’abuso delle risorse pubbliche destinate ai gruppi consiliari ha provocato l’apertura delle indagini giudiziarie sulle illegalità capillari nella Regione Lazio. A loro l’inossidabile governatore della Lombardia dovrà pagare oltre centomila euro di risarcimento per averne diffamato l’onore accusandoli di avere manipolato le firme in calce al suo listino nelle elezioni del 2010.

La scoperta di una realtà di scandali e corruzione fondati sull’appropriazione arbitraria del denaro dei cittadini e sulla certezza dell’impunità è dovuta in gran parte alle iniziative dei Radicali. L’unica forza ad avere assunto come imperativo la lotta intransigente contro il potere che si è andato costruendo e ramificando in Italia, in nome dello Stato di diritto e della legalità. E che per questa ragione è rimasta sempre estranea alle inchieste che periodicamente coinvolgono formazioni e rappresentanti dell’intero universo politico.

A differenza del partito guidato da Marco Pannella ed Emma Bonino, che alla battaglia pervicace contro i soprusi del potere ha impresso il timbro di un garantismo puro e disinteressato, altri hanno preferito sventolare le bandiere del giustizialismo e delle condanne sommarie agitando cappi in Parlamento, lanciando monetine contro Bettino Craxi, evocando il tintinnio delle manette come strumento di palingenesi morale. A vent’anni di distanza, per una curiosa nemesi storica, sono loro a divenire i “nuovi untori” simbolo dei privilegi della “Casta” su cui riversare il disprezzo dell’opinione pubblica indignata.

La realtà criminale emersa nelle ultime settimane a livello territoriale rivela fenomeni da decenni al centro delle battaglie radicali. Sono i Radicali ad avere intrapreso una lotta durissima e isolata opponendosi nell’assemblea laziale all’approvazione da parte di tutte le altre forze politiche dell’aumento dei contributi pubblici ai gruppi da 1 a 14 milioni di euro annui. Campagna coerente con l’iniziativa promossa da oltre 35 anni contro il finanziamento statale dei partiti, denunciato come un gigantesco incentivo alla proliferazione di apparati soffocanti e voraci, all’occupazione predatoria delle attività economico-sociali e alla spartizione del potere.

Nessuno li riteneva credibili quando avvertivano che lo stanziamento di un flusso enorme di ricchezze a favore di oligarchie prive di controllo avrebbe creato il terreno propizio alle occasioni di corruzione, malversazione, peculato. Sono i Radicali ad avere lottato testardamente contro l’istituto delle preferenze nelle leggi elettorali, identificando la propria ragion d’essere con l’impegno instancabile per una riforma imperniata sul collegio uninominale maggioritario. La sola storicamente in grado di assicurare ai cittadini la facoltà di decidere il destino di un paese, di scegliere in una giornata l’indirizzo politico del Parlamento e del governo, individuando la persona più adatta a rappresentarli nelle Camere grazie a una competizione aperta, limpida e appassionante in un piccolo territorio fra visioni del mondo e strategie contrapposte. Conoscendo vita e opere, virtù e ombre dei candidati di un collegio, sapendo da chi sono finanziati e di quali interessi sono portatori. Riuscendo a sancire con un segno di matita la definitiva sconfitta di un’intera classe dirigente, la bocciatura senza appello della presunzione di eternità che contraddistingue ogni nomenclatura.

Solo all’inizio degli anni Novanta e in occasione dei recenti scandali che hanno investito le due principali regioni italiane e i loro capoluoghi, la denuncia dei Radicali contro la potenzialità criminogena delle preferenze nelle liste proporzionali ha trovato ascolto e risonanza. Ma la consapevolezza che la corsa sfrenata alla ricerca di pacchetti di consenso tra candidati dello stesso partito incentivi la sua lacerazione in correnti e cordate di potere, e alimenti i costi delle campagne, il voto clientelare, il predominio e l’influenza delle organizzazioni malavitose, non sfiora i parlamentari impegnati nella redazione del nuovo meccanismo di voto.

Ai senatori della Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama sfugge il legame che unisce la caccia selvaggia alle preferenze e il finanziamento illecito della politica, le spese dissennate e l’appropriazione indebita di denaro pubblico, il voto di scambio con esponenti della ‘ndrangheta. Esattamente i capi di imputazione per cui sono finiti in carcere negli ultimi mesi alcuni “campioni delle preferenze” in Lombardia e nel Lazio. Sono i Radicali ad avere promosso ogni iniziativa per costringere il “Celeste” a rispondere dell’accusa di avere falsificato centinaia di sottoscrizioni per presentare il proprio listino bloccato alle elezioni regionali. Accusa sostenuta con tale testardaggine che l’ex enfant prodige della Democrazia cristiana ha reagito evocando la manipolazione radicale dei suoi documenti elettorali. Parole sfociate nella condanna per diffamazione.

Si tratta di tre fronti di lotta condotta per lo più attraverso campagne referendarie e azioni non violente, inedite e sorprendenti alleanze politiche pur di giungere alla realizzazione dell’obiettivo. Metodo che il partito di Torre Argentina ha adottato per innumerevoli iniziative anticipatrici e lungimiranti. A partire dall’impegno per una “giustizia giusta” all’altezza della civiltà giuridica incarnata da Cesare Beccaria e Leonardo Sciascia, imperniata sui principi del processo accusatorio alla Perry Mason e sulla netta separazione di ruoli e carriere tra giudici e magistrati dell’accusa, sulla disciplina della responsabilità civile per le toghe in caso di dolo o colpa grave contro un cittadino illegittimamente perseguito, su un Consiglio superiore della magistratura indipendente dall’egemonia delle correnti associative.

Una giustizia fondata su tempi ragionevoli e umani nella durata dei processi, “perché altrimenti la certezza del diritto viene vanificata”, sulla limitazione del ricorso alla detenzione prima della condanna, su istituzioni carcerarie rispettose di standard minimi di dignità, in cui la doverosa privazione della libertà non si trasformi nell’annientamento degli individui e nell’imbarbarimento del lavoro degli agenti penitenziari.

E un’attualità stringente si può riscontrare nelle loro iniziative in campo economico-sociale. Era il 1981 quando in un comizio a Bologna Marco Pannella metteva in guardia sui pericoli dell’esplosione del debito pubblico. Fu nei primi anni Novanta che le analisi sull’assetto corporativo, assistenziale e iniquo dello Stato sociale italiano vennero tradotte in un complesso di proposte ispirate al Welfare to work realizzato da Bill Clinton negli Stati Uniti. Riforme incisive e “impopolari per non essere anti-popolari nel futuro e verso le nuove generazioni”, ancorate al progetto di una “rivoluzione liberale e liberista” mai divenuta realtà nel paese delle consorterie monopolistiche e dello statalismo pervasivo, del capitalismo assistito e della concorrenza fittizia, dell’oppressione fiscale e della retorica sulla meritocrazia. Gli ultimi vent’anni sono trascorsi senza che una simile occasione venisse colta, e oggi le tematiche al centro dell’agenda del governo Monti ne ripropongono l’urgenza in un quadro internazionale assai più critico.

La vittoria radicale contro la partitocrazia, parola introdotta proprio da Pannella nell’arena politica, è fuori discussione. Uno scontro durato oltre cinquant’anni tra una combattiva pattuglia liberale e una realtà costruita sulla supremazia assoluta delle forze politiche rispetto alle istituzioni e ai cittadini, sulla volontà dei gruppi dirigenti partitici che si sovrappone alle leggi scritte e privilegia la logica dei rapporti di forza sul rispetto delle regole costituzionali, appare risolto. Nessun dubbio, almeno sulla carta. Ma la realtà è ben diversa. Marco Pannella ha vinto ma della sua vittoria non vi è traccia.

Se è evidente il progressivo disfacimento di una classe dirigente, nessun riconoscimento viene attribuito ai Radicali dalla politica, dall’informazione, dai cittadini. Soltanto in rari e rapidi passaggi televisivi o in poche righe di giornale ricorre l’espressione “Tutti, tranne i Radicali”. A prevalere è il silenzio, la mancanza di consapevolezza che non siano tutti uguali, che non tutti abbiano votato un provvedimento criminogeno, che non tutti siano uniti e complici nelle illegalità. La remota percezione che sia esistita una forza in grado di opporsi con coraggio, di offrire un’alternativa di regime, di proporre la possibilità e l’idea di un’altra Italia, sembra assente. È come se il partito di Bonino e Pannella vivesse da anni quel sogno in cui si è convinti di gridare con tutta l’energia ma la voce produce silenzio, le gambe si muovono freneticamente ma non si riesce a fare un passo in avanti.

Al contrario, in questa fase prendono il sopravvento le grida dei fautori del populismo indiscriminato, gli anatemi forcaioli del “tutti uguali e tutti marci” che in realtà non portano ad alcun cambiamento. Come sempre il giustizialismo demagogico edifica patiboli sulle piazze cittadine o televisive, invocando la ghigliottina per “il malvagio e il traditore di turno”, presumendo che la sua eliminazione purifichi il corpo sociale e ne favorisca la rinascita. Ma i meccanismi e le strutture che hanno determinato il malaffare, alimentati con il contributo decisivo di chi oggi agita il cappio, rimangono inalterati.

Un capolavoro gattopardesco si può così realizzare: mutano i volti di chi recita sul palcoscenico politico quotidiano, si perpetua la concezione oligarchica del rapporto tra cittadini e istituzioni. Si tratta di un fenomeno ciclico, il cui precedente illustre va ricercato nell’Italia di vent’anni fa. Lo scenario rispetto al 1992-1993 è pressoché identico, se non per un’unica eloquente eccezione che riguarda proprio la pattuglia di Torre Argentina. Al tempo di Mani Pulite esisteva la speranza, la tensione verso una profonda riforma delle istituzioni che trovava espressione e voce nelle iniziative referendarie di Marco Pannella, riconosciuto come un politico pulito e lungimirante, dotato di una visione e di una capacità di governo, degno di essere ascoltato.

Nel 1993, l’anno dei referendum radicali sul maggioritario uninominale e sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla depenalizzazione del consumo personale di droghe leggere, sull’abrogazione delle Partecipazioni statali e sul superamento della lottizzazione partitica nei consigli di amministrazione delle banche – l’anno in cui per la prima e unica volta la morsa delle forze politiche sulla Rai si era seriamente allentata – le principali rilevazioni demoscopiche proiettavano il leader radicale ai primissimi posti nel livello di stima e assegnavano alla sua lista un lusinghiero 8 per cento dei voti. Vent’anni dopo Pannella sembra scomparso nella coscienza collettiva e i Radicali sopravvivono a fatica attestandosi attorno all’1 per cento dei consensi. Un’indubbia vittoria politica e morale si traduce in una dimensione prossima all’estinzione elettorale. Ancora una volta, a beneficiare dei risultati delle loro lotte sono altri, pronti a stravolgerne il valore e a vanificarne la portata. Si chiamino Silvio Berlusconi o Umberto Bossi, Antonio Di Pietro o Beppe Grillo.

Come è stato possibile tutto ciò? Perché chi può rivendicare il merito di avere combattuto un sistema di potere senza connivenze e nelle condizioni più difficili oggi è ignorato da media e cittadini?
La prima ipotesi di risposta porta al cuore dell’universo politico italiano. Un mondo intrinsecamente anti-liberale nelle sue culture egemoni: cattolicesimo oscillante tra confessionalismo clericale e assistenzialismo corporativo, conservatorismo gretto, nazionalista, imbevuto di rigurgiti neo-fascisti, socialismo massimalista e velleitario che adora lo statalismo e rifiuta la sfida con la modernità, populismo distruttivo e anti-parlamentare, ambientalismo fondamentalista e anti-scientifico, regionalismo etnico e affaristico.

E un filone laico soltanto a parole, autoreferenziale e incapace di lottare. Culture che attraverso le loro espressioni partitiche si sono cementate creando un modello politico unico al mondo: la partitocrazia, forma di governo fondata sulla più ampia condivisione in tutte le scelte strategiche, sul metodo assembleare che uniforma tesi e punti di vista differenti. E che grazie alla sua forza omogeneizzante orienta alla ricerca del massimo consenso la ragion d’essere del fare politica: la sua stella polare è la corresponsabilità nelle scelte più rilevanti, la sua parola d’ordine nel terreno economico-sociale è la concertazione tra le parti in gioco, mediata dal governo e ratificata dal Parlamento.

Con l’unica e isolata opposizione dei Radicali, in Italia è stato costruito un regime dalle caratteristiche totalizzanti e pervasive, alternativo e ostile alla democrazia politica competitiva, come rivela in maniera plastica l’eliminazione del maggioritario uninominale dalle discussioni e trattative sulla legge elettorale. Un modello culturale che demonizza e rifiuta il valore del conflitto di tesi tra cui scegliere liberamente non può che reagire come un corpo compatto e impermeabile verso un progetto rigorosamente liberale. Solo quando la debolezza del regime politico apre al suo interno brecce e contraddizioni, l’iniziativa radicale riesce a inserirsi e a conquistare riconoscibilità.

Un’altra pista conduce al mondo dell’informazione italiana e al suo rapporto di affinità, complicità, intimità con il potere. Bersaglio polemico privilegiato del movimento di Torre Argentina, gli organi di informazione soprattutto televisivi sono accusati di riservare alle sue iniziative un atteggiamento di censura, mistificazione, superficialità. “Se non rappresenti il potere e le tue azioni non riguardano il recinto del potere, non esisti”, è la denuncia dei suoi esponenti. Che non puntano l’indice soltanto verso la Rai da sempre sensibile agli umori delle fazioni, nella quale le appartenenze alle diverse etnie partitiche schiacciano le professionalità indipendenti e le eccellenze giornalistiche. Non sono soltanto i talk show della tv pubblica, con il loro parterre di ospiti fissi e le tifoserie politiche tradizionali, a suscitare l’indignazione dei Radicali. A loro giudizio è la quasi totalità del panorama mediatico che contribuisce a formare nei cittadini una percezione distorta e ingannevole nei loro confronti. Altamente rappresentative di tale “riflesso automatico e corale” sono due vicende di “censura e linciaggio informativo”.

L’assenza di qualunque dibattito televisivo sulla proposta, lanciata da Marco Pannella nel gennaio 2003, di attivare il governo italiano nella Ue, nella Nato e alle Nazioni Unite per promuovere l’esilio di Saddam Hussein e la transizione dell’Iraq verso lo Stato di diritto sotto la guida dell’Onu come strada alternativa e vincente rispetto alla guerra voluta da George Bush e Tony Blair. Una prospettiva di cambiamento democratico di regime con le armi della politica e della diplomazia, antitetica alla barbarie bellica come via per cancellare l’orrore della tirannide di Baghdad. All’ipotesi stavano lavorando alacremente molti governi del Medio Oriente, e una riunione della Lega Araba era stata convocata per ufficializzare l’offerta al raìs.

Un’ampia mobilitazione dell’opinione pubblica e delle cancellerie del Vecchio Continente, scaturita da una serie di dibattiti in prima serata sui canali televisivi del nostro paese, avrebbe potuto dare forza alle ragioni della libertà nella pace anche nel confronto con l’alleato Usa. Se una coltre di silenzio concorse ad accelerare l’avvio dei bombardamenti, in un’altra vicenda prevalse la falsificazione della realtà, con un’appendice grottesca e surreale.

Settembre 2011. L’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, giunto agli sgoccioli della sua parabola, decide di porre la fiducia sul bilancio. Le opposizioni scelgono di abbandonare l’Aula e di non partecipare al voto, con lo scopo di far mancare il numero legale. Ma il “nuovo Aventino” non convince i deputati radicali, che per “fedeltà e rispetto verso il Parlamento” restano ad ascoltare l’intervento del capo del governo per poi votare No. Per l’ultima volta il centro-destra riesce a superare da solo la metà più uno dei voti, mentre i suffragi radicali non risultano in alcun modo determinanti nel raggiungimento del numero legale. La loro scelta di autonomia rispetto agli ordini di scuderia aventiniani è sufficiente a scatenare un’ondata di anatemi da parte di rappresentanti di spicco del Partito democratico. Tutti uniti e furibondi – in prima linea Rosy Bindi che si distingue per violenza verbale – nell’invocare l’espulsione dei sei parlamentari dal gruppo del Pd, come un corpo estraneo di reprobi e traditori da cui liberarsi al più presto.

Reazione che trova immediata risonanza sulla stampa. Al punto di cancellare e deformare la realtà dei fatti: per un intero pomeriggio i siti on line di Corriere e Repubblica scrivono che i deputati radicali sono stati decisivi per la validità del voto di fiducia. Solo in alcuni tg della sera arrivano le prime caute rettifiche. Troppo tardi. Sui social network e sulle testate telematiche dei quotidiani si riversano fiumi di insulti, minacce, condanne, animati da violenza e rancore viscerali.

Marco Pannella denuncia un “pogrom mediatico”, ma l’epilogo della vicenda arriva sulle strade della Capitale pochi giorni più tardi. Quando lo storico leader radicale decide di prendere parte a una manifestazione di “indignati” convocata a Piazza San Giovanni sulla scia della protesta che in tutto il mondo divampa contro le misure di austerità finanziaria. È convinto della possibilità di dialogare con i manifestanti, ma appena si avvicina viene circondato e ricoperto di parolacce e sputi, al grido di “Servo di Berlusconi”, “Venduto al Cavaliere”, “Hai salvato il grande Corruttore”. A manifestare con veemenza il loro disprezzo per il politico abruzzese non sono black block incappucciati e in divisa nera, ma signori, giovani e donne vestiti normalmente che sfilano sotto le bandiere del Pd, di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani. «Brava gente indignata e furiosa nei miei confronti proprio perché non informata, esattamente come nel ventennio fascista. Ragion per cui a loro va tutta la mia vicinanza», commenta Pannella dai microfoni di Radio Radicale.

Fin qui le responsabilità del “regime italiano”, come viene definito a Torre Argentina. Ma queste spiegazioni sono sufficienti a illustrare le ragioni della “vittoria negata” ai Radicali? O le sue cause vanno ricercate nel loro modo di parlare al paese, nell’incapacità di comunicare al cuore e alla mente dei cittadini?
Raramente accade che Marco Pannella sia invitato in una trasmissione televisiva. Ma quando accade, la possibilità di imprimere un segno profondo nell’opinione pubblica è puntualmente vanificata da un uomo desideroso di divulgare i motivi della campagna in cui è assorbito.

Prescindendo dalle domande di giornalisti e conduttori e orientando la discussione verso l’obiettivo della battaglia in corso, egli costringe lo spettatore a focalizzare l’attenzione esclusivamente sul tema che gli sta a cuore. Riesce a capovolgere l’impianto collaudato dei talk show politici, che abbracciano diverse problematiche toccandole in modo sommario. Marco, al contrario, vuole essere monotematico e lo fa in maniera estenuante e ripetitiva. È il copione che da oltre un anno segue per promuovere le ragioni di un’amnistia nella giustizia e nelle carceri. Un’iniziativa che lo ha portato più volte a intraprendere la strada del digiuno, fino a drammatici scioperi della sete, per richiamare le istituzioni a rispettare le leggi e assolvere ai loro doveri.

Così può accadere di vederlo con il volto consumato dalla mancanza di cibo e di acqua e con gli occhi spalancati sussurrare appelli al rispetto dello Stato di diritto, o di assistere alla sua decisione di bere le proprie urine affinché la Corte Costituzionale raggiunga il plenum. Ma è nella scelta di simili strumenti di lotta e di comunicazione che il creatore del più “americano” dei partiti politici europei, l’inventore dei sit-in e delle marce anti-militariste, delle azioni di disobbedienza civile contro le leggi ingiuste e discriminatorie in Italia come nella Spagna post-franchista e nei paesi dell’Impero comunista, del bavaglio sugli schermi Rai, sembra ignorare la realtà antropologica dell’Italia di oggi.

La quale, di fronte ai metodi di lotta radicale, reagisce quasi sempre con un moto di rifiuto. L’immagine di Pannella impegnato in un drammatico sciopero della fame o della sete, nella percezione collettiva non costituisce più una notizia, ha perso ogni motivo di fascino e novità. Viene accolta con un misto di indifferenza abitudinaria e di attenzione morbosa ai segni del digiuno sul suo corpo. È difficile che le persone si chiedano il perché dell’iniziativa non violenta. Prevale l’allontanamento e il cinismo disincantato: quasi mai il suo messaggio viene ascoltato o recepito.

Un paese che per cultura secolare nutre un interesse ossessivo verso l’apparenza, che ama soffermarsi sulla superficie dei fenomeni, resta colpito dal volto del digiunatore ma raramente vuole andare oltre e capire i contenuti del digiuno. Proviamo a immaginare per un momento quale impatto potrebbero avere le idee e gli obiettivi radicali se trovassero nella figura di Barack Obama o nell’eloquenza di Bill Clinton il loro canale mediatico. La prova più eclatante del predominio assoluto dell’immagine nella patria della Controriforma e del Barocco emerge del resto in tutti gli scandali politico-giudiziari.

Sul piano partitico, ma anche a livello di élite intellettuali e di opinione pubblica, la reazione di condanna e di sdegno si riversa unicamente sulla persona indagata. Il quale dai suoi colleghi di partito viene additato come reietto e traditore, mentre il suo crimine costituisce lo sbocco coerente di comportamenti promossi con il consenso di tutti. L’anatema moralistico contro il “mostro”, accompagnato dal clamore per gli aspetti più grotteschi della vicenda come nel caso di Franco Fiorito, finisce per limitare la portata dello scandalo identificandolo con poche e isolate “mele marce”.

Nessuno, tranne la pattuglia di Torre Argentina, ha il coraggio di sfidare il coro dominante e di illuminare le cause profonde e sistemiche di un’illegalità ramificata e capillare. Oggi come vent’anni fa manca la dimensione istituzionale e strutturale nella lettura degli scandali: quasi tutti rifiutano di verificare se e quali decisioni, leggi, accordi, abbiano originato i comportamenti malavitosi. Perché sono proprio le intese scellerate raggiunte con la più vasta condivisione delle forze politiche a provocare le occasioni di disonestà individuale.

Altro versante che ha ispirato le campagne radicali coinvolge gli intrecci economico-finanziari fra Stato e Santa Sede. Terreno in cui si può comprendere la natura dell’anticlericalismo di Marco Pannella. Il quale, in nome della religiosità e del primato della coscienza, ha sempre contrapposto “i credenti nell’uomo e nella libertà dello spirito, che vivono le proprie convinzioni come ricerca aperta e laica animata dal dialogo, ai credenti nel potere e nelle ricchezze”. Tenendo presente la differenza fra “popolo del Vangelo” e gerarchie vaticane, i Radicali hanno intrapreso durissime battaglie contro i privilegi fiscali riconosciuti alla Chiesa. A partire dall’iniquità dell’otto per mille, per cui le risorse non attribuite vengono ripartite tra i diversi culti in proporzione ai fondi già assegnati. Un problema ancora irrisolto, al contrario di quanto avvenuto per la riscossione dell’Imu sulle attività commerciali svolte nelle strutture ecclesiastiche. Partiti in solitudine per chiedere la fine di un privilegio che discrimina gli altri imprenditori, i militanti di Torre Argentina sono riusciti a vincere un muro di ostilità, irrisione, indifferenza. E per decisione del governo Monti, dal 2013 la Santa Sede dovrà pagare l’imposta.


Solo i Radicali, eredi e interpreti in Italia del costituzionalismo liberale illuminista, settecentesco e “nordamericano”, possiedono gli strumenti per compiere una lettura alternativa e promuovere nella consapevolezza comune una “rivoluzione copernicana”. Ma la loro esclusione dai programmi di maggiore ascolto dedicati agli sprechi e alle ruberie della “Casta”, e il disastro comunicativo che ne accompagna le rare apparizioni televisive, li rendono quasi incompatibili con i cromosomi del nostro paese.

Che nelle sue viscere sembra “vomitarli”, come ebbe a dire Emma Bonino all’indomani della débacle delle elezioni politiche del maggio 2001: nessun eletto in Parlamento e l’assoluta cancellazione dei temi etici, economici, istituzionali sollevati dai Radicali. L’ex commissaria europea agli aiuti umanitari decise allora di andare a vivere in Egitto a studiare l’arabo, per immergersi nella sua cultura e incoraggiare i partigiani della libertà in lotta contro l’autoritarismo di Hosni Mubarak e l’integralismo islamista, perché impegnati a promuovere un cambiamento liberale e democratico in un paese strategico per il Mediterraneo e per il Medio Oriente. Vi restò a lungo, facendo conoscere all’Occidente l’esistenza di personalità ed energie che sembravano impensabili. Tutto ciò dieci anni prima della “Primavera araba” dei giovani eroi di Piazza Tahrir. Forse in quella decisione di “esilio volontario e militante” è racchiuso il destino italiano dei Radicali.

sabato 13 ottobre 2012

Gli italiani e la rivoluzione

«Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe.
Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… “Combatteremo – fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto – fratelli contro fratelli”. [...]. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione.
Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli».
Umberto Saba