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domenica 25 febbraio 2007

Il Tenente Giovanni Drogo ed il senso della vita...


Oggi sono andato da mia sorella a trovare il mio nipotino e l'ho preso in braccio per la prima volta. E' stata una bella sensazione prendere quel fagottino e coccolarlo, anche perché era tranquillissimo e mi guardava con quel senso di curiosità e smarrimento di chi è appena arrivato in un posto e non sa da dove viene e cosa deve fare.
Per una contemporanea casualità in TV oggi pomeriggio al programma televisivo "Per un pugno di libri" su Rai Tre uno dei due libri oggetto del gioco era "Il Deserto dei Tartari" di Dino Buzzati.
Dino Buzzati lo ritengo uno dei migliori scrittori italiani, sicuramente il migliore del suo tempo. Mi ha aiutato a crescere quando avevo un'eta molto critica, dagli 11 ai 13 anni, attraverso due testi fondamentali che il mio professore della scuola media aveva adottato come libri di narrativa: "Marcovaldo" e "Il Colombre e altri racconti".
Le sue storie hanno un profondo senso pedagogico, ci insegnano ad essere degli uomini ed a confrontarci con la realtà alienante di tutti i giorni.
Tuttavia "Il Deserto dei Tartari" è il libro che più si addice alla giornata odierna.
Solo poche parole su questo capolavoro che basta, da solo, a inscrivere Buzzati tra i più grandi narratori del '900, vicino a Kafka. ll suo romanzo è uno sguardo sull'ineluttabilità del tempo che scorre e sulla solitudine, forse anch'essa ineluttabile, dell'uomo.
Buzzati ci racconta la vita andata a male di Giovanni Drogo, inutilmente spesa nell'attesa assurda. La narrazione, dapprima lenta, accelera come un gorgo con la maturazione del protagonista, sottolineando e sostenendo il tempo non lineare, logaritmico, che fluisce insensibile e indifferente scandendo la vita del protagonista dapprima ignaro e poi tardivamente consapevole della corrente di vita e di morte che ci avviluppa. Come in Pavese, c'è nel "Deserto" un senso dell'infanzia e dell'adolescenza come età felici in cui il progetto-uomo è ancora possibile e aperto, in contrapposizione all'età matura, segnata dal tempo trascorso e dalle speranze sepolte. La morte è una presenza costante ma non cupa, non terribile. Nonostante l'assenza consolatoria di un dio o di una speranza ultraterrena, la morte è qui rappresentata come epilogo dignitoso e forse come eroico termine di tutte le sofferenze. Cupa e terribile può essere invece la vita quando ad essa non si è adatti, quando ad essa non ci si adatta.Singolare è l'uso dello spazio e del movimento come metafora: la frontiera a difesa del nulla, la fortezza in alto, che pare a volte allungarsi verso il cielo, immensa da lontano e singolarmente piccola da vicino, così come ci pare il tempo che ci separa dalla morte nelle differenti età che viviamo. Assurda è l'attesa infinita del nemico, o dell'evento che dona senso a tutta una vita, così come assurdo e quasi surreale è il fascino sottile che incatena a così inutile attesa . Surreale è ancora l'incontro moltiplicato, come attraverso un gioco di specchi, tra il vecchio capitano e il giovane tenente fresco di assegnazione: l'evento, nella sua assurdità ripetuta e assurdo nel suo ripetersi forse infinito, sottolinea una ciclicità che non può rimandarci al ciclo eterno e conosciuto di giovinezza, vecchiaia, morte.
Grande, grandissimo narratore, Buzzati tocca e scandaglia la coscienza dell'uomo moderno per lasciarci il senso dell'assurdo, la cifra del tempo e della solitudine che scontiamo, anche senza saperlo.

"Se durassimo in eterno, tutto cambierebbe. Siccome siamo mortali, molto rimane come prima."
Bertolt Brecht

2 commenti:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e