Caro Edmund,
debbo muovere alcune obiezioni ai tuoi giudizi sull'ipocrisia americana. Anzitutto, non mi sono accorto che in America l'ipocrisia sia più diffusa che altrove: in Italia, per esempio. Mi sono accorto soltanto ch'essa è di diversa natura. Da noi l'ipocrisia non è un fatto sociale. Appartiene al novero delle iniziative private, e ognuno la esercita per fini personali. Gl'italiani, per esempio, non si metteranno mai d'accordo tra loro per sostenere una menzogna utile agl'interessi dello Stato o di una classe, come succede da voi, dove ogni tanto vengono varate grosse bugie collettive, cui ognuno si sforza di far finta di credere. Da noi nemmeno la dittatura fascista riuscì a imporre il conformismo. La gente applaudiva Mussolini ma non gli concedeva che il minimo necessario per poter continuare a vivere in pace. Italo Balbo, governatore della Libia, che una volta andai a trovare a Tripoli, mi disse, accennando alla sua uniforme con camicia nera: «Vedi cosa mi tocca fare per mantenere la famiglia?». Ed è press'a poco la stessa risposta che diede il vecchio Rossini al giovane Wagner, che gli chiedeva come mai aveva smesso di comporre. «Che volete? Prima, quando dovevo mantenere molti figli, ero obbligato a credere all'importanza della musica. Ma ora i miei figli son cresciuti e provvedono con i mezzi propri...».
L'ipocrisia in Italia è dettata dal senso dell'«opportuno». È spicciola, pratica e utilitaria. Quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza; si limita a un calcolo di convenienza. Una cinquantina d'anni fa, a Capri, una ricca famiglia inglese si mise in testa di convertire gli abitanti al protestantesimo. E in un certo senso ci riuscì perché tutti i neofiti avevano diritto a mangiare gratis. Ma a un certo punto scoperse che ogni domenica andavano a confessarsi da un prete cattolico che aveva dato loro il permesso. Frattanto i missionari erano caduti completamente in miseria, perché i loro seguaci di fede ne avevano poca, ma di appetito molto. E allora furono gl'«ipocriti» che mantennero loro senza punto domandargli in cambio la conversione al cattolicismo.
No, una vera e propria ipocrisia in Italia non c'è; ma non c'è per la ragione molto semplice, e poco nobile, che gl'italiani non hanno un Ideale. Essi accettano sé stessi. Non si sforzano di essere diversi e migliori di ciò che sono. In America l'ipocrisia nasce da questo tentativo. La donna americana che, prima di fare l'amore con un uomo che non è suo marito, beve, un po' per stimolare con l'alcol i suoi desideri, ma soprattutto per poter credere l'indomani di aver agito senza il controllo della coscienza, certo è un'ipocrita; ma lo è perché ha nell'animo un'idea di onestà e di pulizia da preservare contro le proprie debolezze. Ricordo la mia indignata sorpresa quando, all'indomani della mia prima esperienza erotica americana, mi vidi trattato con estrema freddezza dalla mia compagna che si rifiutò di parlarne. Ero furioso. Da buon italiano, mi sembrava offensivo e ignobile che una donna avesse dimenticato o provasse disgusto per una notte d'amore con me. E non riuscii a perdonarglielo.
Nemmeno ora questo atteggiamento, si capisce, mi piace; ma credo di comprenderne le ragioni. E la mia mente le accetta, anche se il mio temperamento le rifiuta.
Voi siete ipocriti anche in politica: quando fate dell'anticolonialismo, per esempio, voi che siete i figli e gli eredi della più spietata colonizzazione nella storia del mondo. Il linguaggio che tenete all'Onu starebbe benissimo nella bocca dei pellirosse; ma in quella di coloro che sterminarono i pellirosse, permettimi di dirti che stona un po'. Voi combattete nell'Africa del Nord i francesi schierandovi in favore degl'indigeni contro i quali essi hanno fatto molto meno di quello che voi faceste contro gl'indigeni vostri. Ora, è vero, voi trattate i pellirosse molto più lealmente e umanamente di quanto i francesi trattino gli arabi. Ma è anche più facile, dopo averli ridotti a una esigua minoranza che, anche completamente parificata ai bianchi nella legge e nei diritti, non può più far loro nessuna concorrenza. Voi impedite agli europei di fare, in Africa e in Asia, quello che i vostri fathers , europei anch'essi, fecero in America. Politicamente, forse, avete ragione. Ma questo posso dirlo io, compaesano e allievo di Machiavelli, che mi ha insegnato la distinzione fra la politica e la morale. Tu, no. Per te, americano, la politica e la morale debbono coincidere. E qualche volta devi ammettere che coincidono male. Tanto, da farmi ricordare quello che Disraeli diceva di Gladstone: «Io non gli rimprovero di barare al giuoco: ogni uomo politico lo fa. Gli rimprovero di dire ch'è stato Dio a infilargli la carta nel polsino».
Eppure, io ammiro la vostra ipocrisia e capisco ch'essa rappresenta una forza sociale d'incalcolabile valore. Roosevelt fu un grosso ipocrita quando «obbligò» i giapponesi a attaccare Pearl Harbour mentre giurava alle madri americane che mai uno dei loro figli eccetera. Però con quella ipocrisia vi mise dalla parte del Bene contro il Male e fornì ai soldati americani un'arma molto più importante della bomba atomica: il Diritto. Fu insomma, lui puritano, un buon Machiavelli cattolico, un Machiavelli molto più machiavellico del nostro povero Mussolini, che di Machiavelli parlava tanto e non ne capiva nulla.
Eppoi, che importa? Tutta questa ipocrisia «di emergenza» non impedisce di fatto alla vita americana di essere intessuta di rapporti umani fra i più semplici e schietti e cordiali del mondo. Io nella «sincera» Italia non so mai fino a che punto fidarmi di un amico e fino a che punto diffidare d'un nemico. Qui, invece, lo so benissimo. Quando uno a New York m'invita a colazione, son sicuro, accettando, di fargli un piacere. A Roma no, o per lo meno non sempre.
Per concludere, rimango del mio avviso che l'ipocrisia è il tributo obbligatorio che il Peccato paga alla Virtù. Ma bisogna che questa Virtù ci sia, perché un popolo le paghi il tributo. In America c'è. È nello sforzo che ogni americano compie, più o meno in buona fede, per essere virtuoso. Non sempre ci riesce, ma quasi sempre se lo propone. In fondo a ognuno di essi sonnecchia un Jefferson fermamente persuaso che il Bene basta volerlo per instaurarlo sulla terra.
Noi questa ingenua fede l'abbiamo persa da secoli. E appunto per questo siamo maturi per diventare la colonia di un popolo puritano, ipocrita e forte. Se voi continuate a fare gli anticolonialisti, qualche altro - puritano anch'esso, a modo suo, e certamente più ipocrita di voi - ne approfitterà.
Pensateci.
Indro Montanelli
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